sabato 15 dicembre 2012

Supa de orz de la Val de Fiemme

Solitamente supero il reparto libreria del supermercato a una velocità mediamente sostenuta, in parte perché ho sempre troppe pretese in fatto di letture, in parte perché ogni volta che rovisto alla ricerca dell'impossibile o del fortuito finisco per trascinare via il carrello chiedendomi cosa mi aspettassi di trovare. C'è però un giorno fortunato per tutto e se non per tutto almeno per qualche cosa. E così ho trovato il ricettario regionale che tanto andavo cercando da qualche tempo e finalmente l'ho acquistato.

C'e qualcosa nel modo in cui si cucinava e in parte si cucina ancora, che mi appassiona fortemente. Voglio precisare: non credo che il meglio sia già passato, credo però (anzi, sono fermamente convinta) che la tradizione abbia un suo valore e che debba esistere uno spazio, oggi più che mai, in cui conservarla intatta. Io la vivo come un'urgenza interiore, un richiamo, un bisogno d'appartenenza. Mi sono avvicinata al mondo della cucina e del blog per amore del cibo, per svago, per mettere alla prova la mia incapacità di dedicarmi a qualcosa per più di dieci minuti e ho scoperto in questi mesi un gusto tutto nuovo che non conoscevo di me, un approccio al cibo tramandato e semplice che in sé non contiene tanto la promessa di qualcosa di nuovo, ma più che altro di qualcosa di antico ora riscoperto.
E cosa mai sarà? Un pezzo di storia di tutti noi, credo.

Ci sono piatti che si mangiano solo in alcune parti d'Italia, verdure o erbe che crescono solo in alcune terre. Ed è proprio questo aspetto recondito e remoto ciò che m'interessa maggiormente del cibo e della mia voglia di riscoprirlo.

La Val di Fiemme si trova in Trentino, in una zona che si apre come un incanto di montagne, laghi, boschi e piccole cittadine sparse come presepi. Ne parlo come se ci fossi stata, in realtà associo l'immagine che ho di altre valli viste dall'alto che mi hanno lasciato più o meno tutte la sensazione di posata integrità. Sarà la montagna possente o la cima di alberi legnosi a farmi percepire la lentezza del mutamento, come se l'uomo fosse un abitante discreto e rispettoso. Mi piace pensare che in alcuni luoghi sia ancora così.

Ingredienti:
 
200 gr di orzo perlato
100 gr di pancetta affumicata (in una sola fetta)
50 gr di fagioli secchi
1/2 cipolla
1 costa di sedano
2 carote
1 patata
1 litro e 1/2 di brodo vegetale
sale

La ricetta è una delle più tradizionali di questa regione e credo debba molto sia alla qualità dell'orzo che a quella della pancetta. Nella sua semplicità ha il sapore caratteristico dei luoghi freddi, grazie all'accostamento dell'affumicato con il sapore delicato del cereale.
L'orzo, inoltre, è antico quasi quanto le cime innevate, alimento da sempre consumato dall'uomo e ricco di proprietà benefiche. Già Ippocrate, famoso medico greco, consigliava l'orzo a tutti i suoi pazienti e oggi dovremmo utilizzarlo spesso cercando di acquistare l'orzo mondo, che a differenza del perlato è integarle e quindi non raffinato. Le caratteristiche migliori, come spesso succede, sono in ciò che noi scartiamo.

L'uso dei legumi in questo piatto è facoltativo, ovvero esistono varianti senza i fagioli e in verità anche senza la carne, che viene sostituita dalle proteine del latte, facendo del piatto una delicatissima zuppa bianca.
Di mia iniziativa ho aggiunto al soffritto un goccio di vino rosso per sfumare, non previsto dalla ricetta.

Il procedimento è semplicissimo, ma richiede i tempi di ammollo e cottura che sono la parte migliore di questo piatto. A dispetto di tutti i ricettari di come si cucina in cinque minuti, la zuppa è il piatto per eccellenza della lentezza, un regalo prezioso in un'epoca che va sempre di fretta.

Lasciare in ammollo dal giorno prima l'orzo e i fagioli secchi. Il giorno successivo preparare un trito di sedano, carota e cipolla. Affettare a parte la patata e ridurla a tocchetti. Nell'olio rosolare il trito insieme alla patata e alla cipolla tagliata sottile. Dopo qualche minuto aggiungere la pancetta tagliata a dadini e far soffriggere altri cinque minuti. Integrare l'orzo e i fagioli, mescolare con cura e versare 1 litro di brodo vegetale (o acqua tiepida) nella pentola. Salare e coprire. Raggiunto il bollore abbassare la fiamma e cuocere a fuoco medio per circa un'ora. La zuppa deve sobbollire lentamente fino a cottura. Aggiungere gradualmente l'acqua o il brodo affiché non si asciughi troppo e per regolare la consistenza a proprio gusto.

Il consiglio è quello di prepararla con un giorno di anticipo o la mattina per la sera. E' un piatto che deve riposare e insaporarsi lentamente. Con due fette di pane bruscato diventa un nutriente e caldo piatto unico contro il freddo e la malinconia.

martedì 11 dicembre 2012

Strudel con cavolo rosso e mele

Sono in coda alla cassa del supermercato con il  cavolo rosso nel carrello in attesa del mio turno, quando noto che la signora davanti a me è notevolemente interessata al mio acquisto, non fa che guardarlo. Sono quasi sul punto di chiederle se può suggerirmi una ricetta per cucinarlo, dal momento che per me è la prima volta. Invece mi anticipa lei domandandomi la stessa cosa perché - mi confessa -  è sempre stata sul punto di comprarlo rinunciando ogni volta. Sorrido. Forse per l'inaspettato slancio di due sconosciute che si parlano alla cassa di un supermercato affollato. Forse per lo strano clima di confidenza che viene a crearsi nel giro di pochissimi minuti. O forse semplicemente perché sentirsi vicini alla gente a volte è questione di un attimo, basta superare quella scorza fatta di tante minuscole distanze e sfoderare un sorriso. Magari avremmo continuato a chiacchierare se avessimo avuto più tempo, ma le sue buste erano già piene mentre pagava il conto e mi salutava agitando la mano con la tacita promessa che un giorno - incontrandoci nuovamente per caso - ci saremmo scambiate la ricetta. Non posso che sperare che in qualche modo, tortuoso e magico, queste parole la raggiungano.

Il cavolo rosso, che poi a vederlo è di un bel viola acceso e sicuramente spicca tra le verdure invernali, deve il suo caratteristico colore a delle sostanze chiamate antociani. Anto che?
Be', a ognuno il fardello di portare il proprio nome, tanto più che degli antociani non si parla spesso. Appartiene - come tutti i cavoli, cavoletti e simili - alla famiglia delle crucifere ma a dispetto del nome è invece uno degli alimenti-medicina più noti e usati fin dall'antichità. Originario dell'Asia e ancora oggi molto utilizzato nella cucina indiana e cinese, è anche protagonista della nostra dieta invernale. Come la maggior parte delle verdure, il cavolo mantiene le sue proprietà se consumato crudo e tende invece a perdere molti dei suoi benefici se cotto (soprattutto se ripassato) e accompagnato a piatti di carne o grassi animali. Il massimo sarebbe tagliarlo a striscioline e condirlo a insalata, magari unendolo ad altri ortaggi. Dal momento che la natura non fa mai nulla a casaccio, il cavolo è un ottimo preventivo per raffreddori, bronchiti, tonsilliti e tutto ciò che ha a che fare con le vie respiratorie, quindi perfetto per la stagione invernale portatrice di tutti questi acciacchi. Inoltre è consigliato a chi soffre di artrosi, gastriti, ulcere gastriche e coliti ulcerose, nonché contro acne, dermatosi e stitichezza. Insomma, in questi tempi di crisi potremmo tornare a vendere succo di cavolo in boccetta come una volta si faceva con le presunte medicine miracolose, solo che noi non saremmo additati per ciarlatani...

                             Ingredienti:                              

per l'impasto

300 gr di farina
60 gr di burro
1 cucchiaio di olio
sale
acqua q.b.

 per il ripieno

1/2 cavolo rosso
2 mele 
1/2 cipolla
2 chiodi di garofano
1 foglia di alloro
 1 cucchiaio di aceto di mele
 1 cucchiaio di zucchero di canna
uvetta
burro
vino rosso
sale

La ricetta prevedeva la sfoglia ma io ho preferito preparare una sorta di brisée più leggera. Quindi prima di tutto dedicarsi all'impasto: versare la farina sul tavolo e al centro porre il burro a tocchetti, l'olio, un pizzico di sale e iniziare a lavorare con le mani. Quando il composto avrà assunto un aspetto sbriciolato, iniziare ad amalgamare acqua fino ad ottenere un impasto liscio e omogeneo. Far riposare in frigo.

A parte pulire e tagliare a striscioline il cavolo, sbucciare e tagliare a dadini le mele. Porre queste ultime in un tegame insieme alla cipolla tagliata finemente e il burro, far rosolare fino ad appassirle. A questo punto aggiungere il cavolo, cuocere qualche minuto a fuoco vivace e sfumare con un po' di vino rosso.
In un'altra padella caramellare lo zucchero con l'aceto di mele e trasferirlo nel tegame con il cavolo. Aggiungere le spezie, l'uvetta, il sale e se necessario un po' d'acqua. Portare a cottura.

Stendere l'impasto su un foglio di carta da forno cercando di tirarlo molto sottile e adagiarvi all'interno il ripieno di cavolo e mele lasciando un margine di circa 1 cm per lato. Eliminate l'alloro e i chiodi di garofano! Aiutandovi con la carta, formate un rotolo e ponetelo in una teglia da forno. E' necessario che la pasta sia tirata finemente perché la parte interna tenderà a rimanere molto umida a causa dell'impasto e se non è abbastanza sottile corre il rischio di non cuocersi. Spennellate con un tuorlo d'uovo e fate cuocere in forno preriscaldato per circa 20-25 minuti a 180° ventilato.

Si tratta di un piatto molto dolce, smorzato in parte dalla brisée croccante. Il cavolo rosso si sposa molto bene con le mele proprio per il suo sapore dolciastro che lo rende adatto anche a stufati accompagnati da questo frutto. Ha un sapore forse insolito, ma io credo che di questi tempi un po' di dolcezza non guasti mai, soprattutto se come me dovete combattere ogni giorno con un carattere dalle spiccate note acidule!

martedì 4 dicembre 2012

Chili con carne e fagioli

Con la ricetta che propongo oggi per la sezione dedicata ai viaggi immaginari nelle cucine di altri paesi, ritorno nel mio tanto amato Messico. E lo faccio in una giornata di tramontana, la prima forse della stagione che inaugura finalmente il periodo inverale e anticipa quello ormai prossimo delle festività natalizie. Sebbene il chili nasca in una terra arroventata dal sole, non posso fare a meno di pensare a quanto sia perfetto in una giornata di freddo.

Come tutte le ricette, anche quella del chili ha la sua storia che nel tempo si è arricchita di racconti e sapori ormai strettamente legati gli uni agli altri. Sembra che la prima prova documentata dell'esistenza di questo piatto risalga al 2 Settembre 1519, proprio agli inizi della conquista spagnola in terra Atzeca.
Il principale cronista di quegli avvenimenti, l'eploratore Bernal Díaz del Castillo che scrisse la Historia Verdadera de la Conquista de la Nueva España, racconta che gli alleati degli Atzechi, certi della loro vittoria contro uno sparuto numero di uomini, avevano già allestito dal giorno prima i grossi calderoni in cui preparare il loro pasto vittorioso. Il banchetto consisteva in pomodori, sale e chili.
La carne sarebbe stata loro fornita dagli uomini sconfitti in battaglia: carne umana fresca, fresca. Che questo aneddoto sia vero o meno, è risaputo che gli Aztechi praticassero il cannibalismo per fini religiosi e credo sia indelebile nella memoria di ciascuno il cruento sacrificio a cui gli sconfitti erano sottoposti una volta catturati. Pare che gli spagnoli abbiano trovato altari grondanti sangue e ornati di cuori umani che i gran sacerdoti facevano bollire e presumibilmente mangiavano. Quale sia l'origine di una pratica così feroce senza eguali nella storia della civiltà umana, resta ancora un mistero. Gli Spagnoli in confronto erano dei dilettanti, nonostante tutti gli orrori di cui si sono macchiati durante e dopo la Conquista.

Il Chili è diventato nel tempo il piatto tradizionale delle terre di confine, come il Texas (che nel 1821 divenne parte effettiva del Messico indipendente e che successivamente fu annesso agli Stati Uniti dall'Occhio Lungo) a cui dobbiamo l'aggiunta dei caratteristici fagioli.
La questione del "quanto i fagioli appartengano o meno al chili" è ancora controversa, ma di sicuro sono stati aggiunti o in alcuni casi sostituiti alla carne per il loro alto valore proteico: non tutti potevano permettersi infatti del nutriente manzo. Il Texas è conosciuto per le famose chili queens, donne abbigliate alla messicana che cucinavano chili per la strada e lo vendevano ai passanti. Tuttavia nella prima metà del Novecento furono applicate severe restrizioni alle chili queens, che dovettero uniformarsi alle nuove regolamentazioni sanitarie vigenti nei normali ristoranti. Molte chiusero e ben presto scomparvero del tutto, insieme alla pratica dello street chili ormai parte di un certo tipo di cultura.
Un vero peccato, anche se probabilmente oggi sarebbero state trasformate in macchine per fare soldi, come spesso avviene in quella terra che è il set cinematografico più grande del mondo. E il Texas non è stato certo da meno, immortalato in un famoso film il cui titolo gli rende senz'altro giustizia: Il Gigante.

Come la maggior parte dei piatti poveri, realizzati con quel che offre la terra e il clima, il chili non è di difficile realizzazione e somiglia a diversi piatti di altre culture. A renderlo particolare è l'uso di spezie e odori e la qualità delle materie prime utilizzate. Rovistando in libreria alla ricerca di piatti sudamericani (anche se il Messico è centroamerica il  mio cuore lo relega nel sud del mondo...) ho trovato un libricino che avrei dovuto cogliere al volo e invece ho lasciato sullo scaffale. Sfogliandolo sono subito andata a cercare la ricetta del chili, comparandola con le diverse versioni già trovate sul web. Ebbene, invece del classico brodo di carne la ricetta aggiunge della tequila o in alternativa dell'acqua. Ingrediente degli ingredienti, la scorza d'arancia. Ho cercato altre informazioni sull'utilizzo dell'agrume ma senza risultati. Un motivo in più per diffondere una versione con un sapore in più...


Ingredienti (4 persone):

600 gr di manzo macinato grosso con due salsicce
1 lattina di pelati (circa 500 gr)
1 cipolla
2 spicchi d'aglio
peperoncino fresco o in polvere
scorza di 1/2 arancia
origano fresco
zucchero
cumino
fagioli neri messicani
olio
sale

Ho comprato i fagioli secchi in un negozio indiano. Vi consiglio di cercarli sfusi in negozi analoghi perché costano di meno e...sono anche belli da vedere. Come operazione preliminare, da farsi anche il giorno prima, lessare i fagioli portandoli quasi a cottura. Scolare e tenere da parte.

In un tegame capiente rosolare la cipolla con gli spicchi d'aglio, il peperoncino (la quantità dipende dalla vostra tolleranza al piccante!), le foglie di origano tritate e i semi di cumino grossolanamente pestati nel mortaio. Non lesinate con la spezia, come nel gulash rende il piatto veramente speciale.
Quando la cipolla inizia a imbondire, aggiungere la carne macinata e rosolare per qualche minuto. Unire infine il pomodoro tagliato in pezzi, cospargere con un cucchiaino di zucchero e con il sugo nel quale è immerso. Continuare fino quasi a cottura aggiungendo acqua quando necessario per evitare che si asciughi troppo. Dieci minuti prima della fine unire i fagioli, la scorza dell'arancia e ultimare la cottura.

Il miglior accostamento sarebbe con del pane di mais fatto in casa (il corn bread), ma io ho optato per un più prosaico riso in bianco, rigorosamente basmati e lessato solo con un po' di sale e uno spicchio di zenzero, come piace a me. Il riso raccoglie il condimento che è una bellezza e sostituisce il pane senza nulla togliere al piatto.

Non so dove mi porteranno i prossimi viaggi culinari, sappiate che ho ricevuto da poco in regalo un libro di ricette indiane e non vedo l'ora di saturare la casa di spezie...